COME SI FA AD USCIRE DALL'OPUS DEI

LA LETTERA DI DIMISSIONI DI UN EX NUMERARIO
Per capire cos’è l’Opus Dei, questa volta analizziamo la procedura formale richiesta per lasciare l’istituzione. È di prassi inviare una lettera di dimissioni al prelato che, a sua discrezione, concederà la relativa dispensa; possono trascorrere anche diversi mesi prima che giunga una risposta. Per entrare nel merito e capire  attraverso quali sofferenze  debbano ancora passare tutti coloro che decidono di uscire abbiamo l’opportunità di analizzare la lettera che un numerario inviò al capo dell’Opus Dei.
Aristotele, nome di fantasia, è ingegnere, di bella presenza, come richiesto ad un aspirante numerario, vivace e intelligente. Appartiene ad una famiglia della buona borghesia milanese. Per parecchi anni si è dedicato, gratuitamente, agli apostolati e al lavoro di governo della prelatura.  Dopo 24 anni di appartenenza abbandona l’Opus Dei «con spirito di gratitudine a Dio» e resta cattolico.
Prima della lettura del documento, evidenziamo due aspetti che mostrano come l’Opera agisca in contrasto con la normativa ecclesiastica ma anche civile.

CONTRASTO CON IL CODICE DI DIRITTO CANONICO? 
La  lettera di dimissioni di Aristotele (datata 19/08/2001) è stata presentata al prelato Javier Echevarría il quale, ex art. 29 degli Statuti, gli ha concesso la dispensa. La necessità di questo atto formale appare in contrasto con la natura del legame che unisce il laico ad una prelatura: cioè la “convenzione” come previsto dall’art. 296 del codice di diritto canonico, ossia un accordo di natura contrattuale che come tale consente la libertà di recesso per entrambe le parti. Perché allora subordinare la validità delle dimissioni ad un atto unilaterale e insindacabile del prelato senza il quale il fedele laico resterebbe vincolato all’Opus Dei ?  
CONTRASTO CON IL DIRITTO DEL LAVORO SECONDO L’ORDINAMENTO ITALIANO?
Aristotele una volta uscito dall’opera fu  costretto a chiedere al papà il denaro per acquistare l’anello di fidanzamento della futura moglie. Infatti,  nonostante i numerosi anni di lavoro prestato per l’Opus Dei, non ha potuto mettere da parte alcun risparmio e la prelatura nulla gli ha riconosciuto per il lavoro prestato. L’art. 34 degli Statuti  dell’Opus Dei prevede infatti che chi abbandona la Prelatura non possa esigere nulla per i servizi prestati o per ciò che abbia fatto di lavoro o con l'esercizio della sua professione. E’ come se il lavoratore, entrando nell’Opera, accettasse di non ricevere alcun emolumento per il  lavoro professionale svolto a favore dell’istituzione. E ciò è in netto contrasto con l’ordinamento italiano perché viola le norme inderogabili che regolano il rapporto di lavoro.
  
Leggendo la lettera di Aristotele risulta evidente che le ragioni della sua decisione di lasciare l’istituzione sono le medesime della maggior parte dei transfughi:

«oppressione interiore..ricerca di rinnovamento..ripugnanza dell’ambiente che soffro come chiuso, appartato, poco interessato, estraneo al contesto sociale nel quale è inserito.. la convivenza con uomini soli, di età media o avanzata, purtroppo frequentemente bloccati sul piano spirituale e intellettuale, appesantiti, sfibrati e un po’ spenti»,

tutto ciò stempera in lui  i sentimenti e le ragioni che inizialmente lo avevano spinto verso l’Opera.  

I suoi tentativi di chiedere aiuto non sortiscono alcun effetto, i direttori dell’Opera appaiono incapaci  di far fronte ai richiami di chi ancora si mette in gioco per tentare una risalita. Sembra proprio che Aristotele, per l’Opus Dei, non serva più.  Avendo già “spremuto” tutte le sue risorse, economiche e spirituali.


Prelato della Prelatura della Santa Croce e Opus Dei
Viale Bruno Buozzi, 73
00100 ROMA

   Carissimo Padre,

   con la presente esprimo la mia volontà , libera, ferma, definitiva, di lasciare l’Opus Dei e chiedo, pertanto, la dispensa dagli obblighi assunti con la fedeltà  nel giugno 1984.
   A questa determinazione giungo dopo ventiquattro anni di vita nell’Opus Dei come membro numerario e, in particolare, dopo circa sei anni da quando ho iniziato ad esercitare un’attività  professionale a tempo pieno, senza incarichi specifici nell’ambito dell’Opera di san Michele e di san Raffaele, bensì solo nell’Opera di san Gabriele.

   Come già  ho avuto modo di riferire in una mia precedente lettera, questo cambiamento mi ha costretto a vivere in un contesto e in un ambiente che ha aggravato, in modo soverchiante, uno stato di oppressione interiore.

   Da questo, ho derivato l’impulso per la ricerca di rinnovamento, che mi ha portato a questa svolta: lo compio gioiosamente, con spirito di gratitudine a Dio per il sostegno che mi fornisce in questi momenti decisivi, comprovando che un cristiano non è un uomo che vive in abbrivio, perché incapace di decidere di sé.

   Nell’illustrare le ragioni di questa mia determinazione, tengo a precisare che si tratta di valutazioni che non comportano giudizi su persone concrete: a questo riguardo, posso testimoniare il sincero desiderio di servire Dio e la Chiesa, nonché il valore umano e spirituale di tanti e di tante.

   Sono del tutto disamorato e lo sono da tempo.

   La vera e propria ripugnanza nei confronti dell’ambiente concreto che mi accingo ad abbandonare definitivamente, che soffro come chiuso, appartato, poco interessato - generalmente - ad accogliere serenamente e operativamente istanze di rinnovamento, un po’ troppo borghese, estraneo al contesto sociale nel quale è inserito per le peculiari - seppur ragionevoli - categorie mentali che vengono inculcate, mi toglie ogni desiderio di introdurvi altre persone e di trovare in esso volontà  e speranza di iniziative e di cambiamento.
   È un contesto nel quale soffro una paralisi, e quindi una regressione, della vita spirituale e della maturazione umana da ormai alcuni anni, senza che alcuno abbia saputo darmene ragione e soluzioni, oltre a quanto qui illustro.

   Non nego sia un contesto nel quale ci si possa sentire sorretti e protetti nel proprio cammino cristiano, a patto di essere dotati delle opportune caratteristiche e sensibilità ; quest’ambiente non esaurisce, inoltre, l’ambiente dell’Opus Dei: è semplicemente quello nel quale concretamente mi troverei a vivere la restante parte della mia vita, sulla base degli elementi che posso ora ragionevolmente valutare e che nessuno mi ha mai contestato.

   Il contesto di san Gabriele e la convivenza con uomini soli, di età media o avanzata, purtroppo frequentemente bloccati sul piano spirituale e intellettuale, appesantiti, sfibrati e un pò spenti, unitamente alla modesta possibilità  di intervento personale, ha stemperato molto, in me, il senso di radicalità , di gioiosa avventura, di speranza di impegnarsi nell’Opus Dei: ciò che mi ha sorretto, in questi ultimi anni, è stato solo il personale impegno nell’ambito dei rapporti professionali e familiari.

   Quest’impegno è tuttavia frenato dalla remora del suddetto ambiente, che sembra sconfessare, con la propria opprimente influenza, la testimonianza di gioia e di vitalità che cerco di trasmettere: è singolare il fatto che molte persone, da ambienti diversi, frequentemente, mi abbiano esortato ad abbandonare quest’ambiente, ravvisando questo contrasto, per mettere a servizio della collettività  la mia energia e vitalità  in altro modo; evidentemente, pur dovendo pesare queste affermazioni, si tratta di un’impressione che, involontariamente, trasmetto alle persone che frequento.

   Avendo individuato lo spunto che mi ha portato a questa situazione nell’impossibilità  di un impegno apostolico, ho richiesto più volte un aiuto, come la prudenza consiglia di fare, anche nelle persone dei direttori regionali e a lei personalmente, Padre, in maniera più discreta, in occasione di un fugace incontro a Villa Tevere il 6 gennaio di quest’anno; ho inoltre atteso, senza insofferenze, tutto il tempo che mi è sembrato necessario, assumendomi tutta la responsabilità  delle mie decisioni.

   Ho anche esplicitato la richiesta di aiuto, pregando di chiedermi - non di propormi - un impegno diverso, in altro contesto, radicale, forte, con l’idea che ciò potesse restituirmi la speranza di un impegno apostolico che rendesse sopportabili e giustificabili, come è stato per anni prima del confinamento nel contesto di san Gabriele, le piccole e grandi sofferenze morali.
   Questa mia richiesta, intesa in un primo momento come un lamento per non essere stato opportunamente valorizzato
(termine e concetto orripilante, che mai mi è appartenuto) non è stata accolta, proprio in ragione della mia esplicita intenzione di lasciare l’Opera come soluzione più convincente; mi è stato, invero, prospettato qualche possibile incarico nel vecchio contesto, in maniera propositiva e forse un poco generica, come opportunità  per ricominciare: si tratta, come si può ben capire, di altra cosa.
È una situazione di stallo, che non può essere ulteriormente trascinata.

   In questo ultimo periodo ho cominciato a vivere fuori dall’ambiente dell’Opera, ed ho ritrovato tutta la positività di una vita felice e impegnata: questo è l’elemento che considero oggettivo per interpretare la volontà  di Dio nei miei confronti.

   Cordiali saluti.

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