(I) EBRAISMO - LA CONDIZIONE FEMMINILE, VARIEGATA E IN EVOLUZIONE


Articolo di Emauela Provera

pubblicato sulla rivista Adista n. 26 del 10 luglio 2021 

[Anno LV - Suppl. al n. 6553]

parte I

“Nacque così il sospetto che i sogni avessero un senso”; nell’elaborare la cura psicoanalitica Sigmund Freud, forse inconsapevolmente, utilizza il metodo ebraico che nella interpretazione del testo riserva una particolare attenzione al sogno. Il richiamo psicoanalitico a Freud ha lo scopo di introdurre i contenuti di questo articolo, legati a fatti di cronaca criminali, evitando che questi stessi semplifichino l’ebraismo in un fenomeno fondamentalista di matrice religiosa. L’ebraismo infatti non è solo una religione, la prima in ordine cronologico dei tre monoteismi, ma anche un modo per comprendere meglio se stessi e una forma del pensiero.

L’articolo si conclude con l’intervista al Rabbino Haim Fabrizio Cipriani, una voce esperta e autorevole che ringrazio per aver accettato l’invito al dialogo.     

 

FATTI DI CRONACA

 

I rabbini della comunità haredim del quartiere Mea She’arim di Gerusalemme suggeriscono alle vittime di non presentare denunce alla polizia, per gli abusi subiti da Yehuda Meshi-Zahav (62 anni) fondatore dell’organizzazione di soccorso Zaka, e membro di quella comunità. La polizia israeliana ha inoltre dichiarato che i funzionari di Zaka lo avrebbero sempre coperto, pur essendo a conoscenza degli abusi che Meshi-Zahav avrebbe commesso sulle donne che a lui si rivolgevano per chiedere aiuto. È ora accusato di violenza sessuale come documentato nell’inchiesta condotta dal giornale israeliano Haarez del marzo 2021; le vittime, quindi, non vogliono denunciare l’accaduto per paura e soggezione nei confronti del leader[1].  

Il matrimonio tra minorenni, qualcuno riferisce tra “bambini”, è una consuetudine praticata in alcune comunità ebraiche chiuse, una realtà che limita la libertà, la coscienza individuale e l’autodeterminazione. Una recente inchiesta condotta dalla giornalista investigativa Molly Boigon su una yeshiva[2] di Brooklyn ha rivelato un sistema di costrizione nei confronti di ragazzini e ragazzine, indotti a contrarre matrimonio in seguito alle pressioni del rabbino Yoel Roth, preside della scuola, che ora sarebbe indagato dalla polizia di New York e dell'Amministrazione per i servizi per l'infanzia[3].

 

Lo scorso 19 aprile è apparsa, sul sito del Dipartimento di Giustizia di New York, la notizia che alcuni leaders di Lev Tahor, una delle numerose comunità haredi, sono stati accusati di rapimento di una ragazza quattordicenne ‘to return her to sexual relationship with adult “husband”’. Il vicedirettore dell'FBI William F. Sweeney Jr.  che ha evidenziato quanto la protezione dei bambini innocenti debba essere una priorità per tutti i cittadini, ha fornito un numero verde per fare eventuali segnalazioni di questi abusi[4].  

 

Il fondamentalismo è un fenomeno plurale che coinvolge le religioni monoteiste ma anche organizzazioni della società civile come, a mo’ d’esempio, il movimento ipernazionalista e complottista QAnon. C’è un legame tra abuso e contesti a matrice fondamentalista? Un ambito ancora poco conosciuto in Italia è quello degli abusi commessi in alcune comunità ebraiche, quelle più chiuse. È un fenomeno però non sporadico, tanto che negli anni sono sorti gruppi come Project Sarah[5] e Shalva (Stati Uniti), Kol V'oz (Israele) con lo scopo di educare alcuni rabbini e rabbine, assistenti di mikvah, dirigenti scolastici ad una maggiore consapevolezza nei confronti di questo tema e a parlarne durante i sermoni. Sulla scia di questi contesti, la condizione della donna è stata oggetto di narrazione nelle note serie televisive e nei documentari come Estreme Wives (BBC), One of us (Netflix), Shtisel (Netflix), Unorthodox (Netflix). Le prime tre si riferiscono alle comunità Haredi, Unorthodox racconta la storia di una donna fuoriuscita invece dalla comunità Satmar.

 

LA SERIE TV UNORTHODOX

“Non penso di poter essere felice finché non sarò davvero indipendente” sono le parole di Debora Feldman, ebrea ortodossa che nel 2009 lascia la comunità chassidica “Satmar” di Williamsburg, un quartiere situato nella città di New York e nel 2012 si racconta in un libro da cui è tratta, nel 2020 su Netflix, la serie TV diretta da Maria Schrader e interpretata dalla bravissima Shira Haas: Unorthodox.

 

Il contesto religioso nel quale cresce la giovane Debora Feldman e l’ambientazione della serie Tv è quello della comunità di Satmar (סאטמאר) che si colloca nella tradizione del Chassidismo, un movimento culturale complesso sorto nella seconda metà del ‘700 in Polonia che ha avuto anche la funzione di rendere popolari e fruibili dalle masse alcuni insegnamenti fondamentali della tradizione mistica ebraica, prima riservati ad ebrei colti o intellettuali. I gruppi chassidici sono moltissimi, strettamente osservanti e si richiamano agli insegnamenti di Ba’al Shem Tov (Maestro del Buon Nome) seppure abbiano caratteristiche peculiari che permettono di distinguere ognuno dei gruppi.   

 

La storia di Debora Feldman mette in relazione la felicità della donna con la presa di coscienza: “Chi accresce il sapere aumenta il dolore” si legge nel libro del Qoelet; si è felici in una comunità ripiegata su se stessa e reticente nei confronti del progresso sociale? può la tradizione culturale giustificare condizioni di vita che comprimono i diritti umani? possiamo definire gabbia ideologica l’osservanza di precetti (stabiliti e interpretati per secoli da uomini) che pongono la donna in una situazione di limitazione della sua autodeterminazione? a queste domande stimola anche il film di Sebastián Lelio “Disobedience” che, incentrato sulla storia omoaffettiva di due donne, affronta il tema del libero arbitrio nell’ebraismo; il film si conclude con il rifiuto del rabbinato da parte di Dovid Kuperman e lo spettatore si domanda se la sua decisione sia ossequio o disubbidienza al precetto. Il libro, da cui è tratto il film, è “Disobedience” del 2007, la cui autrice è Naomi Alderman, una donna cresciuta nella comunità ebraica ortodossa di Hendon.

 

Esther Shapiro, la protagonista della serie Unorthodox, dopo aver abbandonato il marito e la comunità (Satmar), nella quale è nata e cresciuta, va in cerca di una esperienza di integrazione, per sentirsi parte del mondo dal quale è sempre stata separata; per farlo decide di andare in Germania, dove raggiunge la madre che vive lì da diversi anni, con la sua compagna. Solo questa nuova esperienza esistenziale le restituisce una condizione umana di appartenenza e di fragilità di cui Esther sente molto bisogno. Nel film è suggestiva la ripresa di una gita con i suoi nuovi amici al lago di Wannsee; durante il bagno Esther entra in contatto con il proprio corpo, veicolo della conoscenza di sé e di una dimensione finalmente religiosa; nell’acqua deve togliersi qualche vestito e sfilarsi la parrucca, può dialogare con la parte più profonda del suo sé: il cuore.

Quando Esty parte per la Germania non avvisa i suoi familiari, solo un’amica conosce la sua decisione. Quando Yanky, il marito, annuncia alla propria famiglia che Esther è scappata, aggiunge “Esty non era felice”, e il padre esclama “parliamo con il rabbino”. La felicità, dunque, è anche autonomia, svincolo dalla voce dei maestri, autodeterminazione e assunzione delle proprie responsabilità, a volte accompagnata da una fuga o da una decisione che non può essere condivisa con le persone più vicine. Esther dicendo addio alla comunità rifiuta sia l’esperienza di una sessualità innaturale, che ha trasformato il suo primo rapporto, avvenuto dopo un anno dal matrimonio, in uno stupro, sia l’uniformità nel modo di vestirsi: entrambe le esperienze sono l’esito di un cammino di individuazione che la definisce in modo originale e conforme alla sua persona; a Berlino accede al bando che le consente di partecipare a un’audizione musicale, grazie alla quale lei vorrebbe dare un corso diverso alla sua vita; la scelta del percorso musicale come cantante è dirompente rispetto alla concezione talmudica secondo cui “la voce della donna è nudità”, Esty cantando si libera forse dell’ossessione di ridurre la sua persona al desiderio suscitato dal corpo femminile. Per esibirsi sceglie di cantare Mi Bon Siach, una dolce melodia, precisamente un piyut (una poesia liturgica) cantato solitamente durante i matrimoni e spesso come "niggun", cioè senza parole. Questa la traduzione della suggestiva e abbastanza misteriosa poesia ebraica:

 

Colui che sa come dire lo Sheva Brachos


[ed è quindi come una] rosa tra le spine


che comprende l'amore di una sposa


e la gioia degli amanti


benedirà lo sposo e la sposa.

 

Debora Feldman, giovane ebrea libera, curiosa e disobbediente, non è certamente una figura rappresentativa di tutto il mondo femminile ebraico, se accostata per esempio alle note Ròza Luksemburg, Hannah Arendt, Esther Hillesum. Gli ebrei trapiantati negli Stati Uniti e provenienti dalla Lituania, dall’Ungheria o dalla Romania in un tempo successivo alla Seconda guerra mondiale, impegnati a differenziarsi per conservare la propria identità, non si integrano con la società americana e fungono da reti di sostegno per i loro membri: questa autosufficienza e disconnessione dal mondo secolare può costituire un pericolo per le vittime di abusi che restano isolate e vulnerabili. La sua autobiografia è però significativa perché si colloca in un contesto religioso assimilabile a quello dei nuovi movimenti, noti per essere refrattari alle contaminazioni e caratterizzati da un crescendo di fondamentalismo.

 

L’USCITA DALLA COMUNITÀ SATMAR

L’abbandono della comunità, compiuto dalla Feldman, si presta a due chiavi di lettura contrastanti: una, che è prevalente in ambienti ebraici osservanti, considera quella vita comunitaria complessivamente positiva e nutriente per il semplice fatto che la donna si senta soggettivamente al posto giusto e in armonia con il proprio contesto; questa concezione sembra ignorare che la donna abbia diritto ad una libertà oggettivamente costruita, in ambito sia sociale sia familiare. Nel primo caso è eticamente accettabile la subordinazione della donna ai precetti del Talmud senza che gli stessi possano essere studiati (in alcune comunità ebraiche è consentito solo agli uomini). Certo una situazione non dissimile e speculare a quella che si vive nelle gabbie consumistiche di una società ultraliberale in cui la donna è determinata dallo sguardo maschile e la sua vita si conforma al desiderio dell’uomo.  Ma la prima è oltremodo difficile da accettare perché si articola su un inganno (che è il caso di definire) diabolico: quello di ritenere compatibile la disparità di genere con il vivere secondo la legge di Dio. Credere, come qualcuno ha detto, che un mondo fortemente organizzato e regolato (come quello dei Satmar) non produca persone più infelici perché “non si regge sull’oppressione o sul calpestamento delle persone” significa forse sovra legittimare la pressione comunitaria e la relativa influenza interiore invasiva e al contempo sottovalutare il dramma della condizione di uscita dalla comunità; una comunità che, come molte altre nel mondo, considera per esempio le donne impure durante il ciclo mestruale (Niddah), tanto che i mariti non possono toccarle nemmeno per passare una pietanza, non possono vedere nessuna parte del loro corpo, non possono sentirle cantare. Credere che la donna sia impura quando ha il ciclo mestruale è un pensiero che oggi risuona fortemente antifemminista. La pratica delle “quattordici pezze bianche e immacolate” può diventare una forma di oltraggio all’intimità che si spiega solo all’interno di un legame tra due persone unite da una relazione di forza e sbilanciata sul potere; essa consiste infatti nell’ispezionare la vagina due volte al giorno mediante pezze di cotone con lo scopo di assicurarsi che non vi sia traccia di sangue, e la procedura va ripetuta per sette giorni dopo che la donna ha smesso di sanguinare. E se appare una macchia sospetta sulla biancheria intima, la donna dovrà rivolgersi al rabbino (il più delle volte uomo) per sapere come comportarsi. Non è questa una prassi che rende evanescenti i confini privati della sua esistenza?

 

I membri della comunità di Satmar provengono dalla violenza dell’olocausto, sentono più urgente il bisogno della propria conservazione; e poiché il trauma è stato la struttura ideologica fondamentale del loro organizzarsi socialmente appare comprensibile la loro rigidità ma suscita criticità laddove l’autorità del rabbino diventa una forma di sacralizzazione del potere. Il rabbino è un maestro spirituale cui, a volte, i fedeli si rivolgono con assoluta fiducia come fosse Dio.

Ancora, nell’autobiografia, La Feldman racconta di essere stata considerata dalla sua comunità una donna sbagliata perché l’esercizio della sessualità nel matrimonio le provocava dolore e lei tardava a rimanere in cinta; l’ipotesi che la sua vita non fosse felice e non corrispondesse ai suoi desideri non fu presa minimamente in considerazione, al contrario la suocera e la zia si accanirono per cercare un rimedio medico legato esclusivamente alla biologia e fisicità del suo corpo, come se la questione fosse unicamente di educazione sessuale. Questo modo di gestire la condizione della donna appartiene a gruppi totalitari che provengono anche da diverse tradizioni religiose, e consiste nel valutare le persone esclusivamente alla luce del buono spirito della comunità o in relazione alla sola sfera sessuale tra l’altro esclusivamente impostata secondo le esigenze maschili; ma è un comportamento violento che riduce l’individuo ad una sola dimensione giudicandolo sbagliato cioè non conforme alla legge; dal confronto avuto con donne ebree osservanti ho potuto constatare che la situazione matrimoniale vissuta dalla Feldman e dalla protagonista della serie TV, Esty, viene ricondotta ad un disturbo sessuale noto come vaginismo, non quindi a una situazione più complessa, magari di disagio, sofferenza psichica generata da uno stile settario. Uno studio[6] condotto, nel 2020, presso l’Università cattolica di Lovanio ha sviluppato un’analisi critica dei metodi terapeutici utilizzati normalmente in sessuologia, nei casi di vaginismo; lo studio mette chiaramente in luce come questi trattamenti omettano di considerare una corretta prospettiva di genere; la donna, chiamata ad una vita sessuale secondo i desideri e codici maschili, è indotta a provare angoscia e ansia quando non assolve al ruolo sessuale assegnatole dalla società, in questo caso specifico dalla comunità cui la Feldman apparteneva.  I trattamenti utilizzati dalla sessuologia per risolvere disturbi provocati dal dolore durante la penetrazione perpetuano una vera e propria violenza di genere secondo una visione patriarcale della donna e della sua dimensione sessuale. In altre parole, il problema non è il vaginismo ma il modo in cui la società guarda al sesso.   

 

La testimonianza di una donna uscita dalla comunità Satmar aiuta a comprendere che la sessualità femminile è una dimensione che va considerata alla luce di un contesto più articolato, trascurando il quale si rischia di continuare a colpevolizzare la donna:

 

“Sono invisibile. Da sposate dobbiamo coprirci i capelli, a 18 anni avevo dei bei capelli lunghi e neri, un anno dopo me li sono dovuti tagliare; fu mia madre a farlo, mi tagliò tutti i capelli. Nei mesi seguenti non riuscivo a guardarmi allo specchio. Il tempo passava, i figli aumentavano e anche gli abusi. Mio marito mi controllava in modo ossessivo. Il venerdì sera il sesso era obbligatorio. Sono stata ricoverata per ansia e depressione; mi avevano insegnato solo a fare la madre distruggendo l’essere umano che ero prima


Sul tema dell’uscita dalla comunità Satmar è stato recentemente pubblicato un primo interessante studio accademico, intitolato “Degrees of Separation[7] nel quale l’autore, Schneur Zalman Newfield[8], raccoglie le interviste a settantaquattro ebrei chassidici Lubavitch e Satmar che hanno lasciato le loro comunità; Zalman da giovanissimo frequentava una Yeshivah (scuola ebraica) ma al contempo e segretamente leggeva libri della moderna letteratura yiddish, testi scientifici e storici fino ad arrivare ai romanzi russi. Newfield ha solo 30 anni, non 106.

 

 

LA SERIE TV “SHTISEL”

Dall’ebraismo chassidico fanno parte anche i protagonisti della serie Tv Shtisel che, ambientata a Gerusalemme tra gli haredim del quartiere Geula, lascia intravedere una condizione della donna, serenamente integrata in quel contesto, ma distante da quella cui siamo abituati in occidente. La narrazione sembra guardare senza giudicare un modo di vivere lontano dal nostro, anche se la forza inarrestabile della modernità è avvertita come una minaccia alla tradizione non più impermeabile al cambiamento. Nello scorrere delle vicende quotidiane c’è spazio per la coscienza individuale, la fedeltà alla tradizione coesiste con la presa di coscienza delle costrizioni che quella cultura impone: uno dei protagonisti, Lippe marito di Giti, un giorno cerca di raccontare alla figlia più grande, Ruchami, il disagio che lo ha fatto allontanare per qualche tempo dalla famiglia: «Avevo solo 19 anni quando sei nata, all’improvviso mi sono ritrovato a dover guadagnare, dare attenzioni». Shtisel ha riscosso un grande successo, anche perché rispetto alle altre serie Tv evita la denuncia, non problematizza, utilizza un linguaggio dei sentimenti comune a tutto il genere umano, racconta vicende di dolore e di conflitto interiore che ci coinvolgono. Shtisel è un tentativo riuscito di auto legittimazione, e appare come l’anima bianca di quel contesto religioso e sociale invece raccontato, frettolosamente, nella serie tv Unorthodox. Come in tutte le realtà autoreferenziali lo stile è sostanzialmente apologetico, anche se mitigato da un intento critico e liberale; come quello narrato nella scena in cui il gallerista che gestisce la produzione artistico-figurativa del protagonista Akiva Shtisel gli propone di apparire in TV dicendo “…ma so che voi non amate la TV” e Akiva guardandosi intorno risponde “Voi chi? io sono qui da solo” ad indicare una autonomia di giudizio che le comunità chiuse, come quella cui appartiene, scoraggiano.



[1] https://www.timesofisrael.com/in-latest-allegation-woman-says-meshi-zahav-assaulted-her-in-2014/

[2] Yeshivah (in ebraico: ישיבה‎, lett. "sessione/seduta"; plur. ישיבות, yeshivot) è un'istituzione educativa ebraica che si basa sullo studio dei testi religiosi tradizionali, principalmente quello del Talmud e della Torah

[3] https://forward.com/news/466668/hasidic-brooklyns-child-matchmaker-is-under-investigation/

[4] https://www.justice.gov/usao-sdny/pr/lev-tahor-le

[5] Stop Abusive Relationships at Home

[6] Rosales Pincetti, Valeria. Analyse critique dans une perspective de genre, des méthodes thérapeutiques en sexologie: dyspareunie et vaginisme. Faculté de philosophie, arts et lettres, Université catholique de Louvain, 2020.

[7] http://tupress.temple.edu/book/20000000009960

[8] Schneur Zalman Newfield è assistente professore di sociologia presso il Dipartimento di scienze sociali, servizi umani e giustizia penale presso il Borough of Manhattan Community College, City University di New York


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