Leonisa, una donna italiana

Una donna italiana, Leonisa [nome finto], è stata numeraria ausiliare nell'Opus Dei, questa è la sua storia, anche rispetto alla giustizia del nostro Paese. La legge italiana ha riconosciuto le sue ragioni anche se il risarcimento non è stato proporzionato al danno subito. Chi volesse contattarla può scrivere anche alla redazione di dentrolopusdei

Questo documento è stato pubblicato su www.opuslibros.org il 26.09.2011 


Mi chiamo [...], sono nata il 21 agosto 1952 a San Massimo, frazione di Isola del Gran Sasso, in provincia di Teramo, ove attualmente sono tornata a vivere.
Ho conosciuto l’Opus Dei tramite mia sorella, che nel 1965 si era iscritta, su consiglio di un religioso, alla Scuola Alberghiera SAFI di Roma, e alla fine del corso, nel 1968, aveva chiesto l’ammissione all’Opera come Numeraria Ausiliare, cioè come membro con dedizione totale e destinato a lavorare a tempo pieno nella gestione domestica dei centri dell’Opus Dei.
A mia volta chiesi l’ammissione all’Opus Dei come Numeraria Ausiliare il 27 giugno 1970, all’età di 17 anni e 10 mesi (all’epoca si raggiungeva la maggiore età al compimento dei 21 anni).
Dato che la mia famiglia non era assolutamente d’accordo con la nostra adesione all’Opera, come era emerso già nella vicenda di mia sorella, le Direttrici mi diedero l’indicazione di tenere nascosta la mia adesione ai familiari...
Ciò che mi mosse a chiedere l’ammissione all’Opera era l’ideale spirituale di santificarmi nella vita ordinaria tramite il mio lavoro: mi entusiasmava la possibilità di avere una profonda unione con Cristo nel compimento dei miei doveri secolari, senza allontanarmi dal mondo, e che questo mi permetteva di portare l’ideale cristiano a molte altre persone. Quello che voglio sottolineare è che all’epoca non mi resi conto chiaramente che, chiedendo l’ammissione all’Opera come Numeraria Ausiliare, di fatto mi sarei trovata a lavorare esclusivamente per l’organizzazione, senza possibilità di scelte alternative, e secondo modalità che solo col tempo e lentamente scoprii essere assolutamente sprezzanti delle più elementari norme di rispetto dei diritti umani, civili e lavorativi. Fa parte della metodologia formativa dell’Opus Dei con le nuove vocazioni, infatti, condurle per un piano inclinato alla scoperta delle esigenze vocazionali che risulterebbero eccessivamente esigenti se presentate tutte insieme, motivando ogni successiva esigenza con l’adesione generosa alla volontà di Dio nei confronti della persona. Inoltre non si fa prendere coscienza alle nuove vocazioni che si trovano in un periodo di discernimento, ma anzi si fa in tutti i modi intendere che, sebbene ci si trovi nei primi anni ancora in una tappa in cui la propria adesione deve essere confermata con le incorporazioni successive, in realtà la vocazione si vede una volta per tutte, che non ammette ripensamenti perché chi mette mano all’aratro non deve voltarsi indietro, pena l’andare contro la volontà di Dio, e che le incorporazioni successive, pur essendo occasione per aderire sempre più consapevolmente alla propria chiamata divina, di fatto non sono altro che meri adempimenti giuridici: viene inculcato che la vocazione è per sempre fin dal primo momento.
Si tenga anche presente che tali comportamenti sono attuati con ragazze giovanissime, per lo più di ambiente semplice, lontane dalla propria famiglia e dal proprio ambiente, e completamente inesperte. La nostra situazione personale ci portava, pertanto, a trovarci alla fine invischiate senza rendercene conto in tutta una serie di ragionamenti, motivazioni, suggestioni e pressioni che eravamo completamente incapaci di gestire e valutare correttamente.
La mia famiglia, come ho detto, era completamente contraria. Durante il mio Corso annuale nell’estate seguente ad Ovindoli,i miei familiari, pur non conoscendo la dislocazione del centro in cui abitavo, riuscirono a trovarmi e fecero un tentativo di riportarmi a casa. Le Direttrici si opposero energicamente e la mia famiglia non ebbe la capacità di avere la meglio contro l’Opus Dei.
In ogni caso, io feci la prima incorporazione, l’Ammissione, il 6 gennaio 1971, all’età di 18 anni, e l’incorporazione temporanea, l’Oblazione, il 25 marzo 1972, all’età di 19 anni: entrambe prima di essere diventata maggiorenne.
Il corso di Scuola Alberghiera da me frequentato prevedeva alcune lezioni teoriche e una maggioranza di lezioni pratiche che consistevano, sostanzialmente, nel supporto all’attività di conduzione domestica dell’ELIS, un grande centro maschile dell’Opus Dei. Posso quindi affermare che la mia attività lavorativa in favore dell’Opus Dei iniziò da subito, nel 1968, all’età di 16 anni. Nel luglio 1970, terminata la Scuola, iniziai un’attività strettamente professionale (non più formativa) in un altro centro della sezione maschile di Roma e nel novembre 1971 tale rapporto lavorativo venne per la prima volta formalizzato, risultando come datore di lavoro la Fondazione RUI. Tale contratto di lavoro, com’era prassi normale per tutte le Numerarie Ausiliari in quell’epoca, fu l’espediente giuridico che rese legittimo lo svolgimento della mia attività professionale nell’Opus Dei che in realtà si svolse, nell’arco degli anni, in luoghi e centri diversi e lontani tra loro, non tutti sotto la responsabilità della Fondazione RUI. Nel settembre 1971 fui trasferita al Castello di Urio, dove si trova il Centro di prima formazione per Numerarie Ausiliari italiane, e lì ricevetti le prime buste paga, che ci venne chiesto di conservare fra i nostri documenti. In realtà si trattava di una finzione burocratica, dato che le buste paga ci venivano consegnate vuote. È consuetudine, infatti, che i membri dell’Opus Dei con dedicazione totale –Numerari e Aggregati delle due sezioni, maschile e femminile, e Numerarie Ausiliari- versino la totalità dei loro redditi all’Opera come modalità per vivere la virtù della povertà, e successivamente prelevino dalla cassa del centro in cui vivono una modica quantità di denaro per le piccole spese (delle quali sono tenute comunque a rendere conto mensilmente ai Direttori). Ma mentre chi svolge lavori esterni entra in possesso realmente del denaro che poi versa alla cassa del centro, noi Numerarie Ausiliari non percepivamo di fatto nessuno stipendio: questo passava dal datore di lavoro, l’Opera (nella persona giuridica di una delle Società o altro da lei promosse), alla cassa del Centro dell’Opera a cui appartenevamo. Erano poi le Direttrici a provvedere ai nostri bisogni spiccioli, sempre secondo una logica di grande sobrietà e sacrificio personale. Noi Numerarie Ausiliari vestivamo per la maggior parte del tempo in divisa, e il ridottissimo guardaroba che usavamo per le rare uscite era costituito per lo più da abiti dismessi dalle Numerarie. Solo raramente compravamo qualche capo di abbigliamento nuovo, e in questo caso di qualità mediocre.
Nella formazione che ricevevamo costantemente, ci veniva detta che per lo spirito dell’Opera la cosa più importante era la vita d’orazione, ma quando si parlava del lavoro ci veniva ugualmente detto che ricopriva un ruolo principale perché per noi il lavoro era orazione. Ciò premesso, venivamo continuamente spinte ad essere generose nel vivere la nostra vocazione, donandoci senza misura nel compimento delle Norme del piano di vita e soprattutto nell’attività lavorativa ininterrotta. Questo vuol dire che la nostra attività lavorativa si svolgeva praticamente senza pause, fatta eccezione per il tempo dedicato alle Norme (due mezze ore di orazione mentale, 15 minuti di lettura spirituale, la recita del Rosario e l’assistenza alla santa Messa, principalmente) e due brevi pause di riposo in comune obbligatorie, le Tertulie, alla fine delle due mezze giornate lavorative. Era vietato il riposo pomeridiano e qualunque momento di sosta personale, la nostra giornata doveva essere piena, e i pochi spazi lasciati liberi erano riempiti dalle attività apostoliche. Questo valeva sia per i giorni feriali che per la domenica, che vedeva un orario di lavoro appena ridotto, ma molti altri impegni apostolici e ascetici. I giorni di festa grande, invece, Natale, Pasqua, ecc., erano addirittura più faticosi per noi Ausiliari, dato che le consuetudini dell’Opus Dei prevedevano che si festeggiasse con solennità sia liturgicamente che a tavola: il tempo che non veniva impiegato nei lavori di pulizia, stireria, ecc., nei giorni festivi veniva per lo più speso nell’allestimento delle cerimonie liturgiche, nella preparazione dei pasti e nel servizio a tavola.
Nel 1974 la mia sorella che apparteneva all’Opus Dei manifestò una forte crisi vocazionale: la sua salute si era pesantemente deteriorata, era dimagrita al punto da dover essere alimentata con la flebo (che a volte persino rifiutava), stava malissimo e non era più se stessa. Uno dei miei fratelli, chiamato dalle Direttrici dell’Opera, andò a riprenderla a Milano, dove aveva lavorato in quell’ultimo periodo, e tornò a casa, dopo sei anni di lavoro nell’Opera, senza niente assolutamente, la mia famiglia dovette addirittura comprarle un cappotto all’inizio dell’inverno. Economicamente, si ritrovò con i soli contributi INPS versati: tornò senza nemmeno una lira.
A quell’epoca anche io iniziavo a vivere una profonda crisi vocazionale: si erano andati accumulando anni di lavoro pesante e incessante che avevano iniziato a minare la mia salute fisica, ma soprattutto ero stata destinata all’Amministrazione di un Centro maschile assieme ad un’altra Ausiliare dal carattere molto difficile, ma che aveva vissuto nella casa centrale e con molti anni di vocazione, e che per questa ragione godeva della fiducia totale delle Direttrici, che preferivano non mettere in discussione i suoi modi di fare. Aveva un carattere eccessivamente ansioso e perfezionista, che si scaricava su di me che ero la “giovane” della situazione, e che cercavo senza riuscirci, e accumulando a mio volta stress, a sdrammatizzare i piccoli problemi senza importanza che la facevano uscire di sé in continuazione. Inoltre abitavamo in un centro lontano da quello in cui lavoravamo, cosa che ci richiedeva lunghi e faticosi spostamenti quotidiani sui mezzi pubblici romani (dovevamo essere presenti dal mattino presto per preparare la colazione e ci fermavamo fino a tardi), e anche le vicende del ritorno a casa di mia sorella mi avevano scossa.
Fu per tutto questo insieme di ragioni che andai al Corso di Ritiro di quell’anno decisa a lasciare l’Opus Dei. Ne parlai col sacerdote che dirigeva il ritiro, e che faceva parte del governo dell’Opera in Italia, che reagì drammaticamente: mi accusò di tutta una serie di peccati (mancanza di generosità nel lavoro, quando in realtà io non mi ero mai risparmiata e avevo ormai esaurito le mie forze, superbia, infedeltà, ecc.), e senza aspettare che io confermassi o meno le sue ipotesi sulla mia situazione morale mi diede l’assoluzione, indicandomi energicamente che di lasciare l’Opera non se ne parlava e che dovevo aumentare la mia donazione. Uscii da quella confessione confusa, indebolita e senza forze. Riprovai a parlare dei miei problemi, in un’occasione successiva, con il sacerdote Consigliere, quello che attualmente è il Vicario regionale, cioè con la massima autorità dell’Opera in Italia. Nemmeno lui volle farsi carico della mia situazione, e anzi mi comandò di aumentare il distacco dalla mia famiglia, di non andare più a trovarli (cosa che peraltro avveniva già molto raramente) per evitare di sentire l’influsso della situazione di mia sorella. Di fatto da quel momento non vidi più nessuno della mia famiglia per 11 anni.
Nella mia direzione spirituale, Direttrici e sacerdoti si diedero un gran daffare a convincermi che non dovevo mettere in discussione una vocazione divina e di origine soprannaturale, di cui tutti si dicevano certissimi, solo io la mettevo in dubbio. Tutto questo accadeva quando ancora io non avevo fatto l’incorporazione definitiva, e quindi in teoria (ma io non ne avevo chiara coscienza) avrei potuto tranquillamente svincolarmi dall’Opera semplicemente non rinnovando il mio impegno nella prossima festa di san Giuseppe.
In realtà io continuavo ad essere mossa da un grande desiderio di amare Gesù Cristo e di fare la sua volontà, quello che mi mandava in crisi erano le modalità concrete della mia vita nell’Opus Dei, e la mole di lavoro che dovevo svolgere e che ero portata a fare con assoluta dedizione, senza risparmiarmi, e quindi finendo per risentirne parecchio sul piano fisico.
Alla fine, sotto la pressione degli argomenti che mi venivano dati nella direzione spirituale, decisi di perseverare, ma il mio carattere si andò spegnendo. Repressi la mia tristezza, il mio abbattimento, la mia ribellione e molto spesso il pianto. Ma non riuscivo a gioire più di niente, nemmeno dei miei successi professionali, e pian piano smisi di fare apostolato, perché non potevo accettare l’idea di indurre altre a quel cammino che per me si stava rivelando così drammatico.
Un po’ alla volta, iniziai a somatizzare questo profondo disagio. Iniziai a soffrire di mal di stomaco. Così tanto che mi risultava impossibile assaggiare le cose che preparavo in cucina. Parlavo del mio disagio fisico alle Direttrici, che però continuarono a sottovalutarlo. Una volta che, per non aver assaggiato una salsa, andò a tavola e si rivelò troppo salata, venni rimproverata per non averla provata, ma continuarono a non farsi problemi per la mia salute.
Un mio fratello, che in occasione del suo viaggio di nozze venne a trovarmi a Palermo dove ero stata nel frattempo trasferita, si spaventò nel vedermi in uno stato di così profonda prostrazione, e avvisò mia madre, ma i miei familiari erano troppo lontani e troppo poco appoggiati umanamente per riuscire a far fronte efficacemente all’Opus Dei.
Un giorno, mentre lavoravo in oratorio a Palermo, esplosi: buttai per aria qualcosa, che cadde con fracasso, e gridai rivolta al Tabernacolo: “Gesù mio, io non ne posso più”. Accorse la Direttrice che non mi disse nulla, ma mi portò poco dopo dal medico.
Probabilmente per farmi cambiare ambiente, fui trasferita al castello di Urio, al centro di formazione di Ausiliari giovani. In mezzo alle giovani mi sentii un po’ meglio. In questo periodo feci la Fedeltà (incorporazione definitiva) il 29 gennaio 1978, e mi occupai del lavoro di guardaroba in un ambiente più sereno. Tornai a Milano a lavorare nell’amministrazione di centri maschili, e in seguito fui trasferita di nuovo a Urio. Qui venni destinata a svolgere attività in teoria non faticose, per le quali probabilmente venivo anche un po’ invidiata, ma che risultarono debilitanti fisicamente per la mancanza di moto e la ripetitività: lavoravo dalla mattina alla sera a cucire ad orlo a giorno tovaglie da altare destinate ai nostri oratori o alla vendita. L’unica interruzione a tale attività era costituita dal lavoro di confezione delle particole per la santa Messa, lavoro che svolgevo con grande devozione e cura, ma che pure si manifestò dannoso perché si svolgeva in un ambiente piccolo e umido e anch’esso con tempi prolungati. Queste attività, e i lavori pesanti svolti precedentemente, mi portarono alla fine ad una grave e complessa sindrome che manifestava i seguenti sintomi:
- Disturbi alla schiena
- Dolori alle mani per gesti troppo ripetuti
- Osteoporosi precoce
- Bronchite cronica
- Amenorrea precoce e irreversibile
- Anoressia
- Problemi circolatori
La cartella medica che mi venne fatta all’epoca dal medico curante, attestante questa situazione, mi venne successivamente fatta sparire dalle Direttrici e non ho mai potuto recuperarla, anche se ho certificati successivi.
Cominciarono a manifestarsi i sintomi della depressione. Fui portata dapprima da un medico pediatra che aveva in cura le persone del centro; questi mi mandò da una neurologa, ritenendola più adatta alla mia situazione, e questa a sua volta, dopo un mio errore che mi aveva fatto assumere una overdose di farmaci per combattere un’insonnia che non mi lasciava prendere riposo, mi mandò da uno psichiatra. Era l’anno 1987. Tutti i medici che mi ebbero in cura in questo periodo erano, come previsto, membri dell’Opera.
A questo punto, a fronte dell’ormai grave ed evidente deterioramento della mia salute fisica e psichica, ci fu un voltafaccia radicale di atteggiamento nei miei confronti da parte delle Direttrici. Dopo avermi forzata per anni a restare nell’Opera, contro la mia volontà, adducendo l’esistenza di una vocazione soprannaturale, all’improvviso, ora che la mia situazione si era tanto aggravata, si decise che non dovevo più restare lì e dovevo tornarmene dalla mia famiglia d’origine. I miei problemi fisici e di umore erano ormai diventati evidenti, e questo provocava sempre più spesso la critica e l’ostilità delle mie sorelle, Numerarie e Numerarie Ausiliari, più zelanti e perfezioniste, il che aumentava la mia sofferenza e la perdita di salute. Si era innescato un circolo vizioso dal quale era impossibile uscire.
Infatti, dopo le prime sedute con lo psichiatra che portarono a qualche miglioramento, mi venne presentata una lettera di dimissioni volontarie dal mio lavoro (il mio contratto, naturalmente, dopo tanti anni era a tempo indeterminato) già redatta, che io però mi rifiutai di firmare.
Tutta l’ultima fase dei miei rapporti con l’Opus Dei si è giocata su questo braccio di ferro: le Direttrici che si volevano disfare di me, adesso che la mia salute già limitava la mia capacità di lavoro, ma volendo che fossi io, volontariamente, a togliere il disturbo, ed io che dopo essere rimasta nell’Opera per tanti anni completamente contropelo, col solo desiderio di compiere la volontà di Dio nei miei confronti (o meglio: quello che mi avevano fatto credere essere la volontà di Dio nei miei confronti) non me ne volevo andare e se me ne andavo volevo che risultasse ben chiaro che era contro la mia volontà e perché non venivo più considerata di utilità dall’Opus Dei, e non di mia iniziativa.
Mentre si svolgevano tutti questi avvenimenti il mio rapporto di lavoro con la Fondazione RUI era stato trasformato , nel giugno 1988, con un passaggio diretto, in rapporto di lavoro dipendente con il CENSE. In tale occasione mi venne liquidata, a titolo di Trattamento di Fine Rapporto, la cifra di 5.185.000 £, che come consueto furono immediatamente incamerate dalla Direttrice. Quando dal CENSE passai a lavorare con la Cooperativa CEDEL, per la prima volta firmai un contratto di lavoro scritto (quello con la Fondazione RUI e con il CENSE, infatti, era stata un’intesa verbale). In tale contratto scritto si specificava che io avrei mangiato e dormito presso la sede lavorativa. Segnalo questo fatto perché successivamente –come dirò- si tentò di farmi firmare un altro contratto nel quale non era previsto che io dormissi, cercando così, senza farmene rendere conto, di estromettermi dalla “vita di famiglia” prevista per le Numerarie Ausiliari. Inoltre, iniziai a firmare le buste paga.
Mentre inizialmente gli incontri con lo psichiatra mi avevano dato un certo sollievo, facendomi sentire compresa e aiutata nello stato di debilitazione in cui mi trovavo, successivamente la Direttrice si intromise nel mio rapporto diretto con lui e ottenne che lui mi facesse pressioni per obbligarmi a trascorrere un periodo a casa dei miei. Contemporaneamente lo psichiatra mi prescrisse dei medicinali che vennero poi giudicati, dal medico che mi prese in carico quando stavo dai miei, eccessivamente forti e comunque sproporzionati alle mie necessità. Fra gli altri effetti, questi medicinali avevano quello di stordirmi e togliermi le residue capacità lavorative, offrendo così un alibi alle Direttrici che volevano dimostrare sia che non avevo più capacità di lavorare (ma questa ragione sarebbe da sola stata insufficiente al mio allontanamento dell’Opera, dove si predica che i malati “sono un tesoro”) sia, soprattutto, che avevo dei disturbi mentali tali da impedire che continuassi a vivere in comunità.
Fui mandata a casa dei miei nel novembre 1991, inizialmente –mi dissero- per 6 mesi, ma alla scadenza di questo periodo mi fu impedito di tornare a fare “vita di famiglia”. Durante quei mesi vennero a trovarmi per farmi firmare le buste paga, che tuttavia erano come sempre vuote e che iniziarono ad essere trattenute dalle Direttrici. Venne anche più volte, e per lo più a mia insaputa, un sacerdote Numerario a parlare con la mia famiglia alle mie spalle, dicendo loro che ero malata mentalmente, confondendoli e seminando zizzania fra me e i miei. Cercai di parlare con Direttrici anche nazionali, ma ottenni solo risposte generiche.
Dopo parecchi tentativi reiterati e inutili di riprendere il mio lavoro e il mio posto all’interno dell’Opus Dei, il 5 dicembre 1992, su consiglio e col supporto di un sindacalista, che coinvolse l’Ufficio del Lavoro, mi presentai senza preavviso al Centro di Castelromano dal quale ero stata allontanata oltre un anno prima, reclamando i miei documenti personali e chiedendo di riprendere servizio. Il sindacalista disse alle Direttrici che o mi richiamavano al lavoro, o avremmo intentato una causa. Alla fine fui richiamata in servizio nel marzo 1993.
Prima di riprendere servizio, pensai bene di portare a conoscenza delle mie vicende il Vaticano. Quando mi recai presso gli uffici del Vaticano mi accorsi che quello che denunciavo non risvegliava particolare stupore o incredulità, ebbi la netta sensazione che fossero già a conoscenza di fatti simili. Mi consigliarono di farmi assistere da un avvocato rotale col quale mi misero in contatto. L’avvocato mi consigliò di richiedere, a titolo di rimborso per le spese sostenute dalla mia famiglia in tutto il periodo durante il quale ero tornata presso di loro, il versamento delle mie retribuzioni relative a quel periodo. Effettivamente mi fu versata la cifra corrispondente alle retribuzioni da novembre 1991 a febbraio 1993, dopo aver trattenuto quanto speso per me, nello stesso periodo, soprattutto per visite mediche, medicinali e viaggi.
Nel tentativo di dimostrare il mio allontanamento volontario, mi cambiarono, del tutto forzatamente e contro la mia volontà, di centro, e cercarono di cambiarmi -come ho accennato precedentemente- il contratto di lavoro, sia eliminando la clausola del pernottamento, che introducendo un periodo di prova di 45 giorni, ingiustificato nel caso in oggetto, di passaggio diretto. L’avvocato rotale che mi assisteva comprese immediatamente l’intento perseguito con tale cambio e mi disse di non firmare il nuovo contratto.
Sarebbe lunghissimo raccontare con dettaglio tutto quello che accadde in quei mesi. Riassumendo, posso dire che:
- Mi rivolsi a tutte le autorità che mi sembrava potessero legittimamente intervenire a tutelare i miei diritti (il Santo Padre, il Prelato dell’Opus Dei, varie autorità civili, ecc.) e far conoscere la mia situazione;
- Evitai, per quello che la mia prudenza e la mia scarsa conoscenza delle leggi e delle situazioni lavorative mi permetteva, di compiere qualunque atto che mi potesse fare danno, ma ero una persona che dai 16 ai 40 anni era vissuta rinchiusa nelle amministrazioni dell’Opus Dei, senza quasi contatti col mondo esterno, e pertanto inesperta. Inoltre, all’epoca, non erano ancora emersi i numerosissimi precedenti simili alla mia vicenda di altre persone che hanno abbandonato l’Opus Dei che da circa dieci anni si stanno venendo a conoscere grazie alle nuove tecnologie e alle opportunità che esse offrono di scambio di esperienze e di diffusione di notizie. In questo senso, io mi sono trovata a lottare completamente sola e senza poter contare su testimonianze che avrebbero potuto suffragare le mie affermazioni, in mancanza di documentazione assente o sottratta;
- Cercai di far tutelare i miei diritti da avvocati, pur essendo praticamente priva di mezzi e non avendo idea di a chi rivolgermi per ottenere questo. Di fatto, alcuni avvocati ai quali mi sono rivolta non hanno saputo e/o non hanno voluto mettersi contro l’Opera, e, il più delle volte, sotto le pressioni esercitate dagli avvocati della parte avversa, o hanno rinunciato al mandato, o hanno presentato documentazioni incomplete o sbagliate, ledendo ulteriormente i miei interessi.
- Comunque, nonostante che la quasi totalità delle persone da me citate in giudizio si siano rese irreperibili dalla giustizia, il 25 marzo 2005 vedevo riconosciuti dalla sentenza della Corte di Appello di Roma, con sentenza n° 122/05, i miei diritti per essere stata fatta oggetto di licenziamento ingiustificato, ma a causa della documentazione incompleta ho visto riconosciuto il solo rimborso di tre mensilità retributive (invece delle 18 richieste) a titolo di indennizzo del danno, ed un importo irrisorio (1.760,38 €) a titolo di Trattamento di Fine Rapporto (TFR) a causa del cambio di contratto dalla fondazione RUI alla Cooperativa CEDEL sopravvenuto in tempi recentissimi. Precedentemente avevo rinunciato a ricevere, a titolo di transazione, una cifra importante ma a mio avviso non ancora adeguata temendo che accettandola avrei dovuto rinunciare definitivamente alle mie rivendicazioni, soprattutto ad ottenere un rimborso adeguato e il riconoscimento del reale svolgimento dei fatti. A parte quanto appena descritto, non ho ricevuto nessun altro risarcimento per i miei 25 anni di lavoro nell’Opus Dei, né a titolo di retribuzioni arretrate, né a titolo di congruo TFR (proporzionato agli anni di servizio effettivamente svolti), né a titolo risarcitorio per la precaria situazione di salute provocata.
- L’unica volta che riuscii ad ottenere da una Direttrice una risposta alla mia domanda su quale fosse la motivazione per la quale mi stavano facendo allontanando dall’Opera, mi sentii dire: “è la resa nel lavoro: le altre, vedendo lei, lavorano meno pure loro”. Da questo compresi che le motivazioni per allontanarmi dalla mia vocazione non erano soprannaturali, ma completamente umane, e che non era affatto vero che nell’Opus Dei, come diceva il fondatore, “i malati sono un tesoro”.
Sulla base dei documenti allegati (estratto conto INPS e libretto di lavoro) e degli altri che sono eventualmente pronta a fornire, che documentano 22 anni e 7 mesi di attività con regolare rapporto di lavoro, la mia richiesta economica è di € 123.434, pari a € 4.067 a titolo di TFR (dalla Fondazione Rui e dal CENSE), più € 119.367, pari al 50% di 13 retribuzioni mensili per tutto il periodo in oggetto meno i 18 mesi già corrisposti. Calcolando le retribuzioni al 50%, tengo conto da una parte di quanto speso per le mie spese ordinarie (vitto, alloggio, ecc.), e dall’altra del rimborso dell’enorme danno esistenziale da me subito, ritrovandomi a 41 anni senza lavoro né prospettive per raggiungere l’età della pensione senza gravare su altri, con la salute gravemente compromessa, e con gravi problemi di disadattamento causati dalla vita completamente ritirata e fuori dal mondo condotta fino alla mia uscita dall’Opus Dei. Occorre anche tener presente, nel valutare la cifra richiesta, che la retribuzione cui faccio riferimento era quella che ci veniva riconosciuta e che è rimasta sempre ai minimi valori contrattuali, nonostante l’enorme impegno che ci veniva richiesto.
Su quanto narrato sono disponibile a fornire adeguata documentazione. A tal fine fornisco i miei dati e recapiti completi.

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